Le distopie contemporanee sono spesso rappresentazioni di paesaggi aridi: dai deserti di Mad Max alla polvere di “Neghentopia”, ultimo romanzo di Matteo Meschiari
Uno strato di polvere, spesso o sottile che sia, ci ricorda il trascorrere inesorabile del tempo. Una vecchia stanza impolverata, un libro da cui soffiar via nuvole di pulviscolo, un macchinario i cui ingranaggi immobili son ricoperti di limatura: polvere come sinonimo di abbandono, di declino e, soprattutto, di dimenticanza e di oblio. Quando gli autori di oggi chiudono gli occhi per immaginare i mondi di domani, spesso le immagini che ci raccontano d’aver visto sono piene di polvere. La secchezza più che il gelido appeal fantascientifico è il vero protagonista della fiction che tenta di rappresentare il nostro futuro – dai deserti di Mad Max alle buie fantasie distopiche di scrittori e sceneggiatori di ogni paese. Il diluvio di Blade Runner ha lasciato il posto all’aridità.
«La polvere è ovunque» scrive Matteo Meschiari nei titoli di testa di Neghentopia (dal 23 novembre in libreria per l’arrembante Exòrma Edizioni). Dalle isole Fær Øer dove ora si trova, l’autore ci telegrafa alcuni messaggi sul proprio testo ibrido, dato alle stampe dopo aver esplorato in lungo e in largo le contorte vie del selvatico (Geoanarchia, pubblicato da Armillaria), i sentieri nascosti fra i ghiacci del grande nord e le lande rese paludose dal permafrost in scioglimento (Artico Nero, ancora Exòrma).
Neghentopia è un racconto ambientato in un futuro distopico ma ovviamente rappresenta il nostro adesso. Siamo un mondo che pur di concedersi ancora qualche particola di benessere non esita a sottrarre futuro alle prossime generazioni. Un vero e proprio cannibalismo sulla pelle dei figli. Non ci rendiamo abbastanza conto di questo. Così ho pensato di scriverne senza false speranze. Lucius è uno di questi figli. È l’esito allucinato e pauroso del contagio neoliberista. È l’esito delle nostre torture per sottrazione. Per esaurimento di risorse materiali e mentali. Per rendere ancora più atroce questa figura di futuro violato ho deciso di fargli perdere la memoria. Lui fa una cosa ma non si ricorda di farla. La sua mente è sempre più piena di buchi. Ma quei buchi e quella polvere che copre ogni cosa sono qui e adesso. Siamo in mezzo a rovine ad orologeria.
I foschi protagonisti, infatti, si muovono in una geografia aliena ma a noi decisamente affine e oramai familiare. Nonostante la Cordigliera Kalpa, il Mare di Kangak e città come Ugakyr e Yruba costituiscano lo scenario sconosciuto di questa storia, ogni lettore è in grado di percepire l’affinità che lo lega al nostro mondo reale, sconvolto com’è dai cambiamenti climatici e caratterizzato da una scellerata e drammatica incapacità di vedere le conseguenze del nostro agire sullo spazio e di afferrare un tempo che sfugge sempre più in fretta verso un futuro già descritto (da scienziati e narratori) ma comunque invisibile. Ed ecco che il percorso di Lucius, personaggio oscuro partito da un mondo così distante, pagina dopo pagina sembra giungere vicino a noi, in luoghi che, contraddistinti dalla forza universale dell’archetipo, ci parlano delle asperità che si ergono dinnanzi a lui come a noi: l’Atollo, il Fosso, il Labirinto, la Fortezza.
Hai mai visto Gerry di Gus Van Sant? Camminare non solo come pratica del perdersi o come rito iniziatico. Camminare come dissoluzione del senso. Come fine di ogni direzione sensata. Lucius cammina in cerca di Neghentopia ma in realtà non va da nessuna parte se non verso un finale oscuro. Il suo passero invece vola sulle cose. Tra le cose. Come l’anima in volo dello sciamano ma a volte anche come un drone senza cuore. La storia va avanti proprio tra cammini e voli. Due forme diverse di entrare nella stessa notte. Come una scorciatoia o uno scivolo verso la fine dei personaggi. Poi entrambe le cose portano nel libro due modi della visione. Due antropologie dell’occhio. L’agnizione parziale e progressiva del camminare. Il panopticon del volo alato. Due cinematografie e due linguaggi spaziali a cui siamo affezionati senza saperlo o senza volerlo.
Matteo Meschiari non ha scritto un romanzo. Neghentopia è un testo ibrido, che racconta una storia – il viaggio di un eroe? un affresco distopico? un’odissea nel futuro più difficile? – utilizzando tutte le armi a disposizione di un racconta-storie. L’impianto narrativo, infatti, grazie alle didascalie, ai dialoghi serrati e ai consigli musicali ricorda una sceneggiatura. Conseguenza di tale espediente è che il palcoscenico sul quale avviene la rappresentazione inizia a definirsi nella mente del lettore una scena dopo l’altra e in modo lento, un elemento alla volta. Ciò che sorprende, una volta avanti nella lettura, è che assaporando questa storia si ha l’impressione di essere (o di diventare) un noi, di spogliare i panni atavici del lettore rinchiuso nella propria stanza per indossare un cappotto ben foderato e recarsi insieme a torme di osservatori alla rappresentazione di un dramma collettivo o alla proiezione di un film allegorico sul nostro futuro.
Sullo schermo, lassù, scorrono immagini ben precise, definite, nette. Per supportare l’immaginario distopico (ormai connotato e noto anche al grande pubblico) e, soprattutto, per renderlo unico e particolareggiato, il libro è arricchito da numerose tavole realizzate dell’illustratore Rocco Lombardi. Di fianco al film che stiamo leggendo, possiamo quindi guardare mappe, scenari e protagonisti ritratti in bianco e nero, graffiati dalla polvere e dall’inquinamento, impegnati a loro volta ad osservare lo sfacelo e l’inferno che li circonda come Dante e Virgilio fanno nei disegni di Gustave Doré. Il racconto assume quindi altre nature, diventando storyboard, graphic-novel e via crucis post-apocalittica che conduce, una stazione appresso all’altra, a un finale dalle tinte a dir poco ambivalenti.
Il finale del libro può sembrare aperto ma non lo è. Ho chiuso con un’immagine che può lasciar sperare chi ha voglia di farlo ma non è quello che penso e che sento io.
«Nessuno può salvarsi», «Morirò con te. E nessuno può farci un bel niente». Neghentopia porta con sé, ancora una volta e per fortuna, il seme del dubbio e il germoglio della contraddizione. Le sfumature sono nere e polverose, le «colate chimiche» e le «bombe» che hanno sconvolto il mondo di Lucius, dei componenti della sua famiglia, di Bogoras, del caribù e dei granchi sono innegabili e definitive: «Il suo mondo è finito» sentenzia il passero, compagno di viaggio del protagonista. Ma non tutto è nero. Sebbene il dipinto rupestre di Meschiari sia assai fosco, alcune deboli luci si intravedono, qui e là, fra le pagine del suo scritto atipico. Il segreto (sempre che questo esista e che sia utile), risiede nelle storie – «la gente ha bisogno di storie» è il mantra recitato sottovoce che accompagna tutto l’epico viaggio di Lucius – e riposa in quella memoria che, ormai, è sepolta sotto la polvere.
Io volevo raccontare una storia come al cinema. Con la carica evocativa e l’affabulazione menzognera della pellicola. C’è un po’ amore e un po’ odio verso questa prigione visuale dello schermo. La musica è allora la colonna sonora. Necessaria e scontata. Ma è anche una via di fuga. A volte suggerisco per certe scene del libro un ascolto musicale improprio. Un sabotaggio dall’interno.Neghentopia è una storia piena di trappole…
La colonna sonora consigliata è allucinata, straniante e, a tratti, accogliente e antica. A un canto xöömej seguono le musiche di Ernst Reijseger, alle sonate elettroniche di Brian Eno si oppongono le armonie notturne di Schoenberg. Neghentopia è una lettura da affrontare con gli auricolari ben inseriti nelle orecchie e con le dita pronte a digitare sullo schermo nomi che possono, forse, condurre fuori dalle mappe ordinarie. Ecco dunque Thoreau, Zerzan, Mowat; nomi (e letture) che l’autore inserisce nel testo e nelle illustrazioni a mo’ di bibliografia celata, inconscia. Altri sentieri da seguire, che possono portare lontano, in luoghi selvaggi o meno.
La polvere andrebbe sollevata, lavata via, allontanata col palmo della mano o con un soffio deciso dal nostro mondo e dalle nostre menti avvezze all’oblio. I libri di Matteo Meschiari convergono sempre verso un centro, un duplice punto di fuga, attraente e che trasmette, ad antenne in grado di captarlo e di comprenderlo, un messaggio (forse) in grado di incidere sul nostro disastrato mondo reale. Nel bel mezzo della storia, la Fiamma di un focolare snocciola alcuni monologhi. Dice di aver assistito a «tutti i discorsi di tutti gli uomini di tutti i tempi da quando il fuoco ha fatto ingresso nelle nostre vite». Ebbene, il cuore bipartito di quest’opera è sia ciò che la Fiamma rappresenta, vale a dire il bagaglio di storie che ci costituisce, sia il ricordo di quanto vitale è stata – per sopportare la crisi, per tentare la sopravvivenza, per immaginare e quindi comprendere ciò che accade – in passato la nostra capacità di raccontare. Quella di Meschiari è un’opera che agli occhi di un lettore può risultare verde di speranza o nera d’agonia, ma in entrambi i casi possiede la forza di un mito dei tempi antichi e come tale andrebbe raccontata più volte a partire da ognuna delle sue numerose sfaccettature: narrative, musicali, visive, concettuali.
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