Scuola di fumetto 95 - Gennaio 2015
Parliamo di oggi, sì, ma delle tue partenze e del
rapporto del tuo lavoro attuale con quello del passato.
Sei stato uno dei nostri esordienti, sul lontano n.5
di SdF. Un lavoro molto diverso da quello attuale, ma dove lo spirito
non sembra molto cambiato.
La scelta delle strisce mi sembra la differenza più
notevole rispetto alle tue odierne tavole spesso a vignetta unica.
Narrazione a fumetti, sempre ma con ritmi e spazi molto diversi.
Da dove venivi, allora' E da che letture e autori di
fumetto (infanzia compresa)?
La mia infanzia a fumetti significa le buste sorpresa
da 1000 lire da cui uscivano fuori Braccio di ferro, Geppo,
Trottolino, Felix, Soldino... ne facevo scorpacciate quando ero a
letto con la febbre e mia madre me ne dispensava a pacchi. Poi è
venuto il Giornalino che all'epoca trovavi solo in parrocchia, me lo
compravano se andavo a messa! Lì ho conosciuto tantissimi grandi
disegnatori, di cui ho collegato segno e disegno solo tanti anni
dopo: Tacconi, Gaudenzi, Mattioli, Boscarato, Rossi... Poi Dylan dog
nel 92 mi ha riavvicinato al fumetto e poco dopo la fulminazione con
gli albi di Pazienza pubblicati dal Grifo, in contemporanea scoprivo
Robert Crumb e allora ho pensato: “si possono raccontare anche ste
cose con il fumetto?!?”
Il fumetto autoprodotto degli anni 90 è stato sicuramente un passaggio importante, ho preso coscienza che potevo raccontare quello che davvero mi interessava, fino ad allora lavoravo per diventare un disegnatore “convenzionale”per testi di altri. Frigidaire era sicuramente la lettura più sconvolgente, sopratutto per le finestre che apriva sul mondo, stentavo quasi a credere a quello di cui parlavano. Una delle sorprese più gandi fu quando scoprii che il padre di Sparagna era nativo di Minturno, cittadina confinante con la mia, ed era una sorte di “santo” artista.
Ruggine, ancora attiva e vedo che c'è in uscita un numero "speciale" mi puoi dire qualcosa? ne sei coinvolto?
E' stata solo una collaborazione, ai ragazzi piacevano i miei disegni con un forte contenuto critico sulla tecnologia ed uno di questi calzava perfettamente con un numero della rivista con tematiche molto affini.
Che ruolo hanno avuto e possono avere le riviste, nel fumetto? E le fanzine in particolare?
La rivista come contenitore ha il pregio di convogliare energie ben precise, proporre dei contenuti particolari, seguire lo sviluppo di un gruppo di autori...Le fanzine ancora di più rappresentano una squadra, delle scelte forti e ben connotate, per chi le realizza inoltre sono la palestra migliore per farsi le ossa e mettersi alla prova con tutto quello che serve per realizzare un prodotto editoriale, fino a vendere la propria creatura quasi porta a porta. Le riviste come le fanzine segnano letteralmente il tempo, quelle importanti che uscivano in edicola hanno ormai ceduto il passo mentre per le fanzine il discorso continua, ancora oggi ne saltano fuori e puoi dire “oggi ci sono questi che fanno queste cose” e puoi seguirli per vedere fin dove arrivano...
E Lamette? Perché è nata e come avete collaborato tu e Simone?
La
tua storia con Simone e Lamette Comics: è una esperienza ancora
attuale o è legata ad un movimento e a un periodo storico preciso?
Lamette
nasce come costola del sito che ha creato Simone dove prevalentemente
si occupava ( e si occupa tuttora) di musica punk. La passione di
entrambi per il fumetto e il radar puntato su tutto ciò che era punk
ci ha portato a realizzare la rivista perchè avevamo realizzato che
c'erano molti disegnatori che avevano a che fare con il punk... e
così Lamette voleva cristallizare questa tendenza. Dopo le ultime
due riuscitissime antologie a tema esclusivamente musicale, che hanno
coinvolto 66 disegnatori italiani, ci siamo dati uno stop per
occuparci dei nostri progetti personali. Abbiamo altre idee ma
nessuna scadenza da rispettare, tutto resta in stand by...
Il punk, un parolone di 4 lettere... Autogestione e autoproduzione culturale, due parole chiave, i contenuti più forti che restano asciugando il nichilismo e il ribellismo del punk. Capisaldi: rifiuto del mercato, abolizione del copyright, tematiche libertarie, critica verso la società civile, provocazione culturale. Per coerenza si operano spesso scelte molto difficili che sicuramente non pagano sul fronte della remuneratività, ma si arriva per forza di cose a dei compromessi se non si diventa dei perfetti kamikaze.
Prendiamo qualche opera: Campana (fatta assieme a
Simone). Ci sono voluti otto anni per finirlo oppure è un’opera
che si è evoluta insieme a voi due e che dunque si è trasformata?
Campana nasce come piccola
autoproduzione di Lamette Comics e sopratutto come esperimento: 16
pagine pensate, scritte e disegnate a quattro mani, una struttura
inusuale e per niente lineare. Ci siamo chiesti: un prodotto così
può essere letto e apprezzato? Può funzionare? Il risultato è
stato positivo e per questo abbiamo ampliato il progetto, stampandolo
in due edizioni diverse grazie a Giuda edizioni.
L’autoproduzione
è un'alternativa o una scelta? Ti capita mai di essere avvicinato da
grandi editori? E il tuo rapporto con GIUDA, quanto è da
autore/editore e quanto invece una forma paritaria di collaborazione?
I
grandi editori ho provato ad andarci incontro ma finora non ne è
venuto fuotri nulla. L'autoproduzione è una scelta praticabile e
consigliata: grandi soddisfazioni, ci si mantiene allenati, si
guadagna abbastanza se si realizza qualcosa di decente, si ha una
libertà illimitata. Di contro la fatica è immane, la crescita del
proprio pubblico è molto lenta ed anche la propria produzione ne
risente in prolificità. Approciarsi a gli editori è necessario:
sono professionisti e possono far crescere molto il tuo lavoro, se
scelgono di pubblicarti vuol dire che credono in quello che fai, ed
anche questo fa la differenza. Autoprodursi può rivelarsi molto
autoreferenziale. Giuda è un piccolo editore e la nostra
collaborazione è sopratutto il frutto di una lunga amicizia, nata
comunque da una forte affinità.
Ma,
parliamoci fuor dai denti, economicamente e praticamente, che ruolo
ha un editore per te, quali vantaggi ti porta?
Un
editore, se fa in buona parte parte il suo lavoro, fa crescere la tua
visibilità e sopratutto la tua credibilità. In Italia gli editori
che puntano sulla qualità hanno una struttura molto ridotta e non
possono investire in promozione, di conseguenza i libri hanno meno
possibilità di essere visti e comprati. In sintesi si guadagna molto
poco a fronte del lavoro impiegato. I libri si vendono se li porti in
giro, e in questo, chi viene dall' autoproduzione ha una marcia in
più. Per circostanze ed anche per scelta io sono impegnato in molti
fronti per fare quadrare il bilancio, anche se questo rallenta la
produzione di libri.
La tua creatività si manifesta collaborando ai
progetti più diversi. In un epoca dove gli autori passano molto del
loro tempo lamentandosi su facebook del fatto che non hanno il tempo
per fare quello che vogliono o a spiegare che non possono collaborare
con tutti, tu come fai a partecipare a così tanti progetti? Come
dividi il tuo tempo tra creatività, vendita, rapporti, fiere (quali)
e tournée?
E' la parte più difficile
della mia attività. Passo molto tempo a pianificare eventi e
progetti, a coltivare rapporti. Spesso il tempo impiegato supera
quello del disegno. Alle volte preferiresti che fosse il contrario,
in questo modo però riesci ad uscire più spesso dalla tua
stanzetta, essere un disegnatore tout court mi soffocherebbe in
breve!
Il tuo fumetto è piuttosto anomalo, anche se ben
comprensibile. Hai un rapporto con la narrazione disegnata che esalta
le immagini, rispetto alle parole. Qualche riferimento? Qualche idea
tua in proposito? Motivazioni per queste scelte?
Mi piace pensare alle
incisioni rupestri, all'urgenza comunicativa degli uomini della
preistoria, prima ancora del linguaggio scritto il disegno c'era già.
E in quei segni arcaici c'era già tanto racconto e sopratutto la
forte relazione dell'uomo con la natura. Dopo migliaia di anni il
fumetto ha creato la sintesi che conosciamo. I fumetti senza parole,
paradossalmente sono venuti dopo, un ulteriore sintesi probabilmente.
Più immagini in sequenza che raccontano una storia sono di fatto un
fumetto, il linguaggio è quello. Negli anni 20 del secolo scorso le
chiamavano “wordless novels”, parliamo dei libri di Lynd Ward e
Frans Masereel, storie che tra l'altro avevano una profonda impronta
di critica sociale.
Ritieni in qualche modo "popolari" le
tue opere? A chi ti rivolgi? C'è un pubblico del fumetto e un
pubblico altro?
Popolari si, in un
accezione di avvicinamento ad una natura profonda che appartiene a
tutti, che abbisogna quantomeno di una riconsiderazione. Nei miei
lavori il dato portante è la natura: tanto umiliata quanto viva e
potente. L'allontanamento da essa ha scatenato una forte
schizofrenia, bisogna riallacciare una relazione, trovare dei termini
nuovi senza cadere in nostalgie sterili. Il pubblico del fumetto è
potenzialmente interessato a tutto, ma non vedo nelle fiere delle
occasioni propizie di confronto. Il pubblico altro è ovunque.
In particolare, come funziona la collaborazione
con Marina, quella che sembra la più particolare e proficua?
Questioni sentimentali non voglio approfondirle troppo, ma come è
impostata la vostra collaborazione professionale? Avete spazi
indipendenti e altri in comune... raccontaci un po'...
Con Marina divido casa,
affetti e sopratutto viaggi ed esplorazioni. Da questi ultimi nascono
i nuovi contatti che prendiamo in giro, dove poi ritorniamo per
proporre i nostri laboratori di disegno e fumetto che si svolgono
camminando e andando in bicicletta. C'è poi lo spettacolo della
cantastoriessa che Marina ha messo in piedi grazie al materiale
raccolto in questi anni, composto dalle sue canzoni e dai nostri
disegni, pregni delle storie che raccogliamo. I nostri percorsi
personali sono paralleli a quelli comuni e si incrociano
continuamente, poi ognuno di noi porta avanti le sue attività fatte
di libri, presentazioni, laboratori, mostre.
La vostra poetica ha un fine comune? Se dovessi
dire in due parole che cosa fate e perché?
Il cuore del nostro lavoro
è il paesaggio, quello umano, naturale, architettonico, e storico.
Lo attraversiamo in solitario o in gruppo con i nostri laboratori.
Cerchiamo di decifrare quello che accaduto, quello che rimane, quello
che sta succedendo. Filtriamo tutto con il disegno, una pratica
antica e connaturata che coinvolge tutti i nostri sensi. Siamo alla
ricerca di pratiche e saperi di una relazione con la natura che
quantomeno limiti lo sfruttamento e la distruzione. Spesso troviamo
tracce fortemente radicate nel passato, altre volte incontriamo
persone ed esperienze molto attuali che cercano nuove strade.
Il vostro segno è molto diverso, quello che
sembra accomunarvi di più è il rapporto con la natura, avete anche
abitato l'Appennino, ma la raccontate anche oggi, che vivete a
Bologna. Qual è il tuo rapporto con la natura e la campagna? Lo hai
scoperto da sempre o Marina in questo ha dato una spinta?
Io ho vissuto lungamente
in una cittadina circondata da una grande bellezza che mi ha
letteralmente imprigionato. La forte trasformazione di quei luoghi e
la scarsa consapevolezza dei suoi abitanti hanno prodotto in me nel
tempo una grande frustrazione che non riuscivo a focalizzare. Questo
insieme ad altri motivi personali mi hanno indotto ad andare via in
modo molto brusco. Con Marina ci siamo incontrati a Bologna che per
noi è una base preziosa per le nostre attività, neanche lei è una
grande cittadina (è nata sulle Dolomiti Bellunesi!) e così
condividiamo una solida insofferenza. Quest'ultima è motivo della
tensione costante che anima le nostre ricerche e le nostre fughe,
alimentazione ideale per i nostri processi creativi. Per me è stato
necessario sperimentare una dimensione più grande della mia città,
ma vedo abbastanza impossibile andare a vivere in realtà
metropolitane.
Arte e ambiente, arte e quello che ci circonda,
sembra il tuo binomio attuale. Alberico in particolare sta
incontrando, un notevole successo. Prendere coscienza di quello che
succede alla nostra casa madre terra è una necessità o un fenomeno
passeggero?
Diversi esperti hanno
iniziato a chiamare la nostra era “Antropocene”, l'epoca del
dominio assoluto dell'uomo sul pianeta. Sui disastri ambientali ci
sbattiamo il muso tutti i giorni, è una realtà di fatto. Il
progresso e l'innovazione tecnologica che hanno emancipato l'uomo
dalla natura ci hanno portato fin qui. I più ottimisti pensano che
con gli stessi strumenti possiamo rimediare ad ogni danno ed evitarli
in futuro. Saremo più veloci a distruggere tutto definitivamente o
troveremo prima dei rimedi peggiori dei mali? Da quando è iniziata
la civiltà ogni passo in avanti ha richiesto un grosso tributo di
sangue e sofferenza, e così vale anche per il pianeta. Non mi
meraviglio se ci siano persone che non vogliano pagare questo
tributo, con la propria salute e con la propria terra. Penso comunque
a quanto siamo insignificanti per la storia di questo mondo, grandi
cambiamenti climatici come ne sono avvenuti in lontane ere potrebbero
spazzarci via immediatamente. In ogni caso vedere che ancora oggi
come duemila anni fa ci siano uomini e donne che giocano sui destini
degli altri esseri viventi mi porta istintivamente ad occupare una
posizione ben chiara.
Hai trovato uno stile e insieme una tecnica molto
particolari.
Derivati dall'incisione, dalla xilografia, arte
popolare, ma interpretata oggi con mezzi moderni ma molto poveri. Ce
la puoi spiegare (la tecnica) e dirci cosa ti ha portato in quella
direzione?
Nella tormentata ricerca
di un segno e di una tecnica che mi esprimesse al meglio, un giorno
ho provato a graffiare dei supporti in acetato anneriti con della
pittura acrilica. Ho iniziato proprio con Campana, coevo di Lynd Ward
e Frans Masereel, e quel segno raccontava quindi al meglio l'epoca
del poeta Campana. Rileggendo e approfondendo poi la lettura di
quest'ultimo ho trovato dei forti paralleli con le mie inclinazioni:
il camminare, il vagare sui monti, il provare a “riscrivere” il
paesaggio. Da lì il passaggio alle altre tematiche di cui abbiamo
parlato finora e stato una conseguenza naturale.
L'autoproduzione, le serigrafie, le stampe, tutto
questo appartiene a un certo mondo alternativo al fumetto ufficiale.
È piuttosto un mondo e un modo che hai scelto, o piuttosto uno stile
legato al segno e alla mano?
La produzione delle stampe
mette in circolo in modo immediato tutta la produzione che ruota
intorno all'illustrazione, e qui ritorna il concetto di “popolare”
di cui parlavamo all'inizio. C'è poi il discorso dell'artigianalità
delle serigrafie e delle linografie che rimanda alla manualità che
ritengo imprescindibile continuare a coltivare, l'avanzata del
digitale sembra compromettere molto queste abilità. Finchè restiamo
umani vorrei continuare ad usare le mani e non solo su una tastiera o
un touch screen.
Ci puoi spiegare perché per te è così importante per
poterti esprimere, anche senza colori o toni di grigio?
Io disegno prevalentemente
in bianco e nero poiché amo la sua immediatezza. L'uso del colore è
molto calibrato, quando anche lo faccio non riesco mai a trovare una
forza come quella del bianco e nero. L'essenzialità dei mezzi e del
segno conservano quell'aura arcaica e rozza che mi sembra un ottimo
antidoto all'invadenza del digitale. Poi vengano tutte le
sperimentazioni possibili, ci sono in giro tante cose meravigliose.
Mi piace però pensare a cosa riusciremo sempre a fare con pochi
mezzi a disposizione, a come siamo in grado di sopravvivere usando le
nostre mani, il nostro corpo, il bagaglio istintivo che ci portiamo
dietro.
La tua sembra una ricerca laboriosa e evolutiva.
Che pensi del dono naturale del disegno, o invece dello sforzo
quotidiano per conquistarlo?
Nel mio caso non credo di
aver avuto un dono naturale, oltre alla passione ho dovuto faticare
molto e continuo a farlo, un vero lavoro, che all'improvviso ti porta
a risultati inaspettati. Mi piace questa magia del disegno, questa
meraviglia immateriale non misurabile e non quantificabile da nessuno
strumento. Una cosa umana, molto umana.
Perché si disegnano storie?
Perchè dobbiamo
continuare a ricordarci da dove veniamo, tenere acceso un fuoco,
preservare dei luoghi. Il disegno rimane il mezzo più immediato,
resta uno dei tanti, che può aiutare tutti i sensi a rimanere svegli
e a prendere coscienza della propria necessità.
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